Documentazione della 57a edizione della Biennale di Venezia 2017 – classe 5 D e 5 F

Ho chiesto agli studenti e studentesse di documentare una delle artiste o degli artisti che hanno maggiormente colpito la loro immaginazione, descrivendo attraverso un testo e/o una modalità multimediale l’esperienza.

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Studentessa Elsa Pellegrini classe 5D 2017


L’arte come forma più genuina di libertà

L’arte contemporanea è la culminazione necessaria del percorso che l’arte ha intrapreso nella storia. Essa mi ha trasmesso un motto “qualsiasi cosa può essere arte”. L’arte contemporanea si è svincolata dalle regole e dalle convenzioni e ha fatto emergere la figura dell’artista in quanto parte dell’arte. Penso che l’artista produca arte per un’urgenza di dire qualcosa, di esprimere qualcosa e non per un vizio estetico o economico. L’artista è un padre che ha il bisogno di essere padre. Le opere d’arte sono figlie dell’artista, o meglio, estensioni dell’artista. Quello che mi piace dell’arte e che l’io artista è l’opera, un pezzo dell’artista è nell’opera da lui rappresenta, non è nascosto e non è un merito pratico; è una specie di scambio di corpi. Se io faccio del male all’opera, faccio del male all’artista; se ammiro l’opera ammiro l’artista. L’opera pensa come l’artista.

“Qualsiasi cosa può essere arte “non è un gesto arbitrario. Prendere un pezzo della realtà e dichiararlo arte o no. “Qualsiasi cosa può essere arte” è: qualsiasi cosa può essere ospite del pensiero e delle emozioni dell’artista dal momento in qui lui sente il bisogno di esprimersi e decide il modo in cui farlo.

L’arte ha perso ogni regolamento, e non c’è nulla di più rilassante e caotico allo stesso tempo. Il bello dell’arte è che non è una gara, non c’è una classifica. Ogni aspetto dell’arte è talmente indefinito, sfaccettato e divergente che rende impossibile ogni classifica.

Nei 100 metri c’è un record da battere, ma non esistono record nell’arte. L’arte è inutile, se fosse stata utile non avrebbe questo nome. Non è utile alla tecnica, alla pratica, ma è utile a se stessa, senza l’arte non ci sarebbe la sua evoluzione e penso, che l’arte sia utile e necessaria per l’esistenza della libertà. Dove non c’è liberta non c’è arte. Perché arte è non doversi censurare per paura di essere censurato.

Io sono libero di pensare l’arte in qualsiasi forma perché l’arte me lo permette. Se ci fossero regole su cosa può essere arte e cosa no, non sarebbe un mezzo per esprimere la libertà.

Però l’artista è tale perché sa infondere l’arte nelle opere, per fare arte ci vuole una forte convinzione di se stessi, del mondo che ci circonda, e del proprio pensiero. Nessun artista può mentire, nessun artista ci può ingannare, non ci si può fingere artisti. L’artista falso non riuscirebbe a sorreggere il peso della menzogna perché l’arte è un espressione genuina, libera e sempre motivata da un urgenza personale.

studente Davide Pelullo, classe 5D 2017


IL GRANDE VUOTO DELL’ARTE CONTEMPORANEA

Un grande incontro per svariati artisti di fama mondiale, un luogo pieno di opere e installazioni ma mai prima d’ora mi sono sentito più lontano dall’arte. Il tema che negli ultimi anni l’arte contemporanea ci sta passando, è che tutto può essere arte.
L’artista moderno, abbandonando quasi  completamente l’aspetto materiale e quello legato prettamente alla realizzazione grazie al proprio estro, si concentra esclusivamente sull’aspetto concettuale dell’opera.
Noi visitatori,  ammirando le moderne installazioni ed opere, dovremmo rimanere stupiti dal fatto che gli artisti e l’arte moderna ci vogliono rendere non solo partecipi, ma un tutt’uno con esse facendoci sorvolare l’aspetto esecutivo finale.
In sostanza mentre i nostri sensi vengono stimolati da luci, opere semoventi che noi stessi andiamo a muovere, la nostra attenzione viene distolta dal fatto che non siamo di fronte ad una mostra d’arte ma ad un parco giochi per bambini.

Ritornando al concetto precedentemente elencato che tutto può diventare arte, ormai usato come cavallo di battaglia da svariati artisti ed intenditori, io penso che non ci possa essere nulla di più sbagliato poiché se passa davvero questo concetto, alle generazioni future non rimarrà altro che spazzatura.
Occorre mettere dei limiti a ciò che può essere definita opera d’arte.
Con questo non voglio affermare che non ci debbano essere concetti nell’arte ma vorrei che il “contenuto”  non prendesse il sopravvento sulla “forma”.
Prendiamo per esempio un’opera del Canaletto come “l’ingresso del Canal Grande” ove non c’è null’altro che puro estro artistico e il “Concetto spaziale, attese” di Lucio Fontana ove non c’è niente oltre al concetto.
Il punto d’incontro di questi due estremi si può identificare con le opere di Boccioni o De Chirico per esempio dove avviene l’unione tra concetto e realizzazione artistica.
Con questi artisti io ritengo che si sia toccato l’apice della manifestazione artistica.
La vera differenza sta in ciò che è avvenuto prima e ciò che succede adesso rispetto a questo incontro.
Nel ‘700 per  esempio vi era solo forma mentre al giorno d’oggi vi è solamente contenuto.
A mio avviso la forma vince sul contenuto, anche un’opera priva di significato oltre alla realizzazione stessa come il precedentemente elencato “l’ingresso del Canal Grande”, rimarrà per sempre superiore ad un’opera d’arte che mira tutto sul concetto dimenticandosi che lo spettatore vuole osservare qualcosa di piacevole, come si dice in gergo: “l’occhio vuole la sua parte”.
Concludendo, la mostra d’arte della Biennale non ha soddisfatto per niente i miei gusti artistici.
Ritengo che sia null’altro che un’accozzaglia di cianfrusaglie.
Unica opera che ritengo degna di nota è “translated vase,, dell’ artista sudcoreano Yee Soo Kyung.
L’opera si rifà ad una antica tradizione asiatica che coniste nel aggiustare vasi, tazze, bicchieri di ceramica rotti facendo fondere oro tra i cocci dei suddetti. In questo modo, non solo possiamo riutilizzare l’oggetto di nuovo, ma ha assunto un nuovo e superior valore.

studente Matteo Boccazzi  5D


 

studentessa Agnese Vannini 


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studentessa Irrissuto Carmela link al pdf


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studentessa Daniele Mariagrazia Link al pdf


 

studentessa Francesca Saccardi

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studentessa Giorgia Conte  link al pdf


studentessa Valeria Davoli 

Theatrum Orbis  Padiglione della Russia

Curata da Semyon Mikhailovsky, la mostra è un viaggio inquietante ma affascinante attraverso le icone, le paure, le metafore e le ossessioni della Russia contemporanea. Il titolo della mostra riprende quello di un atlante pubblicato nel 1570 dal cartografo fiammingo Abraham Ortelius, Theatrum Orbis Terrarum,  e considerato il primo atlante geografico moderno mai realizzato. In uno spazio tenuto in penombra, la mostra presenta lavori di quattro artisti russi. Al piano d’ingresso, il padiglione accoglie Scene Change (Cambio di Scena) che si compone di varie sculture di Grisha Bruskin (nato nel 1945); un aquila bicipite, strane bambole, omini in marcia, soldati, misteriosi androidi metà uomo e metà automa, zigurrat in miniatura e simboli comunisti sono uniti a proiezioni video che ricordano quelle delle lanterne magiche ed a suoni per creare una installazione straniante che prende di mira i concetti di potere, di paura e di controllo delle masse.Scendendo al piano inferiore, il padiglione ospita un’installazione scultorea di Recycle Group (duo formato da Andrei Blokhin, nato nel 1987, e Georgy Kuznetsov, nato nel 1985). Intitolata Blocked Content, l’opera si compone di volumi spigolosi da cui emergono (o che imprigionano, a seconda del punto di vista) volti, mani e parti di corpi e da una app di realtà virtuale, scaricabile sullo smartphone. Ispirata dalla Divina Commedia di Dante, dal trentaduesimo canto dell’Inferno in particolare, l’installazione mette in dubbio concetti come l’etica del web, la moralità dell’intelligenza artificiale e l’illusione che esista una forma di immortalità digitale. Il terzo lavoro esposto è Garden, una performance video di Sasha Pirogova (n. 1968). Infine il padiglione Russo ospita una installazione sonora del compositore contemporaneo Dmitri Kourliandski (n. 1976), intitolata Commedia delle Arti.
“Il mio progetto è dedicato al concetto di massa, alla folla. Alla folla che nel 19 secolo era intesa come un organismo unico in cui il singolo perde la propria individualità. E fino alla concezione moderna di massa intesa come maggioranza silenziosa, spiega l’artista. Questa folla incontra il pubblico nel lavoro “iniziale”.

Venetian Rhapsody – Padiglione della Corea                                                                                                                                                                    Curato da Cody Choi accoglie i visitatori del Padiglione Corea della Biennale di Venezia 2017 con un gioco di neon multicolore  che trasformano la facciata dell’edificio in un motel. Il look architettonico dell’installazione dell’artista asiatico, si ispira agli alberghi a ore di Las Vegas, ma prende simboli a piene mani anche dal patrimonio visivo di Macao. Secondo Cody Choi, infatti, Venezia avrebbe in comune con le altre due grandi città la capacità di indurre una sorta di fascinazione, forte ma irreale. Una malia, frutto del convergere della Storia e di una decisa vocazione commerciale. “Ho avuto l’opportunità di riflettere sulle implicazioni geo-culturali della città di Venezia” spiega Cody Choi- “Per diverse generazioni o più, Venezia è stata una città turistica che ha costruito il suo successo sulla fusione di pittoresco e commercio. E’ stata anche una città che ha seminato sogni grandiosi nell’animo di molti artisti. Mi è sembrato che gli artisti e le autorità delle arti che partecipano alla Biennale di Venezia siano influenzate dal suo “potere” e vantino i loro successi. Forse, io non farò eccezione. Così ho cominciato a cercare altre città che condividono con Venezia il potere di far sognare le persone e che sono anche dominate da uno spirito commerciale nella politica e nella cultura. Me ne sono venute in mente due: Las Vegas a ovest e Macao a est.” L’artista asiatico usa spesso il neon nel suo lavoro e ama appropriarsi di immagini molto conosciute per poi reinventarle. Al centro della sua ricerca la forte occidentalizzazione della Corea e il modo in cui i conflitti culturali influenzino la socializzazione e l’assimilazione di concetti distanti. C’è da credere che a pesare sulla scelta di creare “Venetian Rhapsody” sia stata anche l’immagine del Padiglione coreano. Architettonicamente troppo vecchio per essere considerato contemporaneo e troppo recente per essere visto come antico o semplicemente d’epoca. Ultimo nato tra gli spazi espositivi dei Giardini il padiglione coreano è stato eretto nel 1995, a un centinaio d’anni di distanza dal corpo espositivo centrale. Il Padiglione Corea della Biennale di Venezia 2017 è occupato da “Counterbalance the stone & the mountain” curata da Lee Daehyung. Una mostra d’impatto in cui Choi espone insieme a Lee Wan, citando un lavoro davvero insolito dal titolo “Proper Time”: una stanza con oltre 600 orologi ognuno dei quali ha inciso il nome di una persona che l’artista ha intervistato. Le lancette si muovono a velocità diverse a seconda del tempo impiegato al lavoro da ognuno per guadagnarsi un pasto.

Senza Titolo (La Fine del Mondo) – Giorgio Andreotta Calò                                         Senza Titolo (La Fine del Mondo) è una delle tre scelte dalla curatrice Cecilia Alemanni per il Padiglione Italia di quest’anno, particolarmente apprezzato. L’avvicinamento è graduale: dopo un passaggio in un grande ambiente segnato da fitte impalcature, mentre gli occhi si abituano al buio, l’artista veneziano ci fa notare alcuni elementi poco visibili, installati accanto alle finestre da cui filtra una luce fioca. “Sono dettagli non indispensabili alla comprensione del progetto”, spiega Calò. Chi passerà di qui in maniera frettolosa non li vedrà, e andrà direttamente verso la scalinata che si intravede in fondo alla sala. “Ma va bene anche così”, dice, “e non vogliamo svelare di più”. Saliamo i gradini metallici. Il progressivo attraversamento dello spazio immerso nell’oscurità e questa ascesa finale spingono al silenzio, alla riflessione. Arrivati in cima, ci si trova di fronte a un’immagine surreale, metafisica. La grande e antica capriata del soffitto si trova perfettamente riflessa, come sprofondata, ai nostri piedi. Una visione dantesca. Concentrando lo sguardo, si colgono vibrazioni quasi impercettibili nell’architettura capovolta, e si intuisce la presenza dell’acqua come elemento specchiante. Una gigantesca piscina genera questo effetto ipnotico, e tornano alla mente le parole di Cecilia Alemanni a proposito di Giorgio Andreotta Calò: la sua opera «sembra suggerire che vi sia più di una connessione profonda tra pensiero magico e tecnologia». Ma non è finita: sullo sfondo, uno specchio riflette anche i visitatori. Una donna si affanna e si sbraccia per riconoscersi, i cellulari illuminano sgarbatamente la scena e vengono ripresi dai custodi. Calò scuote la testa. Questo monumento, o cattedrale, suggeriscono un’altra attitudine, che forse sarà più facile ottenere a inaugurazione conclusa. Accanto a noi, la curatrice Sarah Cosulich sorride: «è un’emozione anche per me, che pure questo lavoro lo conosco bene». premio This Is Not A Prize di Mutina è stato assegnato proprio a Calò, e ha supportato la realizzazione di questa installazione incredibile. Un premio-non-premio, appunto, perché non si limita a una celebrazione estemporanea, ma interviene concretamente sulla fattibilità di opere complesse e instaura rapporti duraturi con gli artisti. È il neonato progetto Mutina for Art, di cui Cosulich fa parte, che comprende anche lo spazio espositivo MUT e il programma di collaborazioni Dialogue. Un impegno fattivo a sostegno dei linguaggi contemporanei destinato a lasciare il segno. Ne sentirete parlare.

                                                                                                                         Davoli Valeria 5°D