“Corps et Imaginaire” Séminaire n°2 –
Roland Huesca avec Jean Luc Nancy

https://youtu.be/cjzVJs8vUP4

Estratti di un’ expeausè
Trascrizione di Ezster Horvath

Traduzione in italiano di Roberto Fantuzzi

In un certo qual modo la conferenza potrebbe limitarsi a questo:

Dentro? Fuori? Ecco due immagini: si potrebbe domandare a tutti,qual è il dentro, qual è il fuori?

Avete già capito che si potrebbe dire, allo stesso tempo, “questo è il dentro, questo è il fuori”, così come si potrebbe dire esattamente il contrario. 

Tuttavia, è evidente che in questa Leda di Leonardo da Vinci ci siano più “dentro” di quanti ve ne siano nella, bisogna pur dirlo, molto bella e molto dettagliata radiografia, che non mostra solamente lo scheletro, ma anche i muscoli e i dettagli del corpo, al punto che si ha ancora di più l’impressione desservi dentro.  Ma ciò che rende maggiormente il dentro, l’interiorità, se volete l’anima, la vita nel disegno di Da Vinci, che ne rende molto di più, incommensurabilmente di più, non è solamente il fatto che sia visto dall’esterno, ma che sia visto da un artista. 

In effetti, ci si può domandare dove, quando e come un corpo è quello che è, cioè a dire, esattamente, il fuori di un dentro – perché è questo che ci aspettiamo da un corpo: che sia un fuori di un dentro, che traduca, esprima ed esponga il dentro. 

Dove? se non, forse, sempre, necessariamente, attraverso una…  come si potrebbe chiamare questo, perché non ci sono rappresentazioni  …attraverso una “presa”, un “afferramento,che chiamiamo artistico o estetico?

In fondo, che cosa si chiede ad un artista?

Non gli si chiede mai di rappresentare esattamente quel che si può vedere, gli si domanda di farci sentire qualcosa, di farci provare qualcosa, che chiameremo della vita, dello spirito o dell’anima, dell’interiorità, etc – dell’anima…diciamo dell’anima…

Che un corpo da solo ci mostri l’anima?

Sì, senza dubbio, ma a condizione che si guardi quel corpo con un certo sguardo, che sia disposto a scorgervi l’anima. Com’è uno sguardo che può vedere un’anima? Non è uno sguardo radiografico. È uno sguardo capace di guardare un corpo: questicapelli, questa pelle, i suoi tratti, la sua allure, etc il più piccolo dettaglio della sua pelle, del suo atteggiamento, del suo portamento, le sue più piccole imperfezioni dei volumi e dellesuperfici.

Forse è già l’anima…

Certamente, è già l’anima…

Che cos’è che facciamo sempre, tutti i giorni? Non parlo di cose misteriose, ma dell’esperienza quotidiana, la più banale: quando incontriamo qualcuno che non conosciamo, che vediamo in autobus, lungo la strada…non lo vediamo mai senza essere in rapporto con la sua anima.

Perché chiamo questo anima? Perché l’anima, che è diventata per noi, per tutta una serie di ragioni (sulle quali dovremo ritornare) e di avventure della storia, una sorta di piccola sostanza immateriale o appena materiale, un vapore che uscirebbe dalla nostra bocca con il nostro ultimo respiro – e quando è stata rappresentata in certi quadri nel medioevo, quest’”anima” ha avuto la forma di un corpo. Se non avesse avuto la forma di un corpo, che forma avrebbe avuto? Non avrebbe avuto nessuna forma…

Ora, l’”anima”, quella che chiamiamo così, sempre in greco, “psiché”, che troviamo nelle parole psicologia, psicanalisi etc, psiché, la stessa psiché, che ha dato il nome a un certo tipo di specchio, è, molto semplicemente, la forma di un corpo organizzato, dice Aristotele.

La forma di un corpo organizzato, è questo l’anima, e lo è di tutti i corpi organizzati, di tutti i corpi viventi.

Aristotele non dice assolutamente che l’anima sia qualcosa che si trovi dentro. Dice che è la forma. Se guardate la forma di un lombrico, di un pollo, di una mucca, di uno scimpanzé, di un essere umano, vedrete la sua anima. Vedrete la sua anima, cioè, la sua animazione. Psiché – o se preferite il soffio: l’animazione. 

L’animazione è quella di un cartone animato, un disegno che si muove…perché chiamiamo animato il disegno animato? Perché è chiaramente del disegno che si tratta, non della foto, del disegno,che non è l’afferramento del reale, ma una rappresentazione che si muove, che parla – e noi siamo tutti dei disegni animati. Salvo che il nostro disegno, la formazione della nostra forma, fatta di minimi dettagli, siamo noi a farla. 

Noi: ogni volta un certo melange che si forma, in un certo momento, da due cromosomi costituiti da una serie di geni, etc…, che vanno a comporre un insieme ogni volta unico, in ogni caso,molto probabilmente unico.  Due insiemi di geni combinati allo stesso modo, che hanno subìto un certo numero di modificazioni genetiche, mutazioni, e che a un certo punto formano una certa unità. Questo dà luogo a un certo corpo, e un giorno questo corpo, che si è sviluppato all’interno di una matrice, dalla quale è,contemporaneamente, dipendente e indipendente, prende una forma, una configurazione: ad un certo momento esce, si distacca, e,come dice Hegel, “con un urlo” accede alla vita.

È sorprendente che l’abbia detto Hegel, per questo tutti lo ripetono, si tratta del grido sul quale molto è stato detto e molto può essere ancora detto: il grido primordiale. Hegel lo nomina perché sa bene che è il primo rapporto con il mondo esterno, che avviene con la respirazione aerea – il bambino non riceve più l’ossigeno dal sangue della madre. Accede al fuori. Ormai “è” fuori. 

È fuori, e non è che il suo “dentro” sia ormai esposto “al di” fuori, è lui stesso che è nel fuori, è “al di fuori” – questa è la prima cosa che vuol dire l’urlo della respirazione. Egli è “al di” fuori.

Si può dire che nel ventre della madre sia già stato, malgrado tutto, comunque, in un certo qual modo, “al di” fuori. Al medesimo tempo, lui stesso è un fuori per la madre, un fuori che è dentro di lei, ma che è per lei un fuori, che si distacca da lei, e non solamente alla nascita. Si separa quando si concepisce, se posso dire che egli “si” concepisce. Perché essere concepito è anche concepire “sé”, non solo la madre e il padre hanno deciso di concepirlo. Talvolta proprio non si decide. Il bambino “si decide” con un’auto-determinazione che non è quella di un soggetto – e di cui mi piacerebbe dire che non sarà mai, forse, quello a cui si ama rinviare quando si pensa ad un soggetto. 

Dunque, fuori, volendolo dire semplicemente, “non essere nella consustanzialità o nella co-naturalità di, o con un’altra identità”. Essere fuori non è nient’altro che questo.

In effetti, c’è una difficoltà reale nel determinare se e quando un embrione sia un individuo autonomo, che meriti, di conseguenza, il rispetto dovuto a una vita individuale. Bisogna dire che la difficoltà reale deriva dal fatto che nel momento in cui si è al primo stadio di un embrione, si ha un’identità – identità che è, allo stesso tempo, in formazione e che sarà, forse, eternamente in formazione. 

Questa identità, che siamo pronti a presentarci come la presenza a sé e in sé della pallina iniziale, fa sì che cominci a dividersi moltiplicandosi, in una correlazione interna tale che inizi a svilupparsi secondo delle potenzialità, delle regolarità, che appartengono alla specie di cui fa parte. Quel che siamo pronti a rappresentarci da subito come uninteriorità, in realtà non è che un’esteriorità: “altra cosa” rispetto alle due cellule iniziali, altra cosa rispetto all’insieme organico, cioè alla madre nella quale prende posto. 

È qui che, interamente raccolto nel momento iniziale, il dentro non è quello che è, del dentro, una possibilità del dentro e, allo stesso tempo, una realtà del dentro (poiché c’è un’interiorità, ci sono dei cromosomi, ad esempio) – non è quel che è, non è che il dentro in quanto fuori, in quanto è altro da, “fuori da, tutti gli altri concatenamenti, correlazioni, da tutte le altre organizzazioni di qualsiasi altro organismo.

Cosa vuol dire l’opposizione dentro/fuori? Come tutte le opposizioni, vale solamente in quanto opposizione, cioè, come un termine in rapporto ad un altro: dentro/fuori, caldo/freddo, uomo/donna…e anima/corpo, è la stessa cosa, ma in una maniera ancora più complicata rispetto a quella che rinvia a delle misure esterne.

Dunque, primo punto: un dentro organico è innanzitutto un fuori per tutti gli altri organismi.

 Forse, è importante che abbia una certa coscienza o un qualche sentimento della propria nascita, del proprio concepimento, al di là dei suoi genitori, del suo passato. Questo diviene rapidamente vertiginoso, e lo è proprio! Ricordate la seconda topica di Freud, l’enorme massa dell’Es comparata al mio piccolo io. L’enorme massa dell’Es è qualcosa che ha del fantastico, non è qualcosa che possa essere designato attraverso una genealogia, ma qualcosa di enorme, l’umanità intera – “io” sono giusto un puntino che si è distaccato, un’escrescenza sulla sua superficie.

Abbiamo preso l’abitudine di separare quel che si è distaccato e di chiamarlo “anima”, che sarebbe come la faccia interna, dunque il dentro di questo fuori fisico, che sarebbe meno importante, nient’altro che materia, infine polvere, come la chiesa cristiana ripete, del resto a giusto titolo – siamo polvere e ritorneremo polvere… e tra le due questa specie di piccola escrescenza che si presenta, si organizza e si anima per sé-stessa.  

Abbiamo preso l’abitudine di separare quel che si è distaccato e gli abbiamo attribuito una forma ideale, inconsistente nel senso materiale del termine e, molto rapidamente, l’abbiamo identificatocome “anima”: un’identità, un’individualità, per dirlo in termini moderni, un ego – ego che in latino designa l’autonomia. 

Descartes dice “ego sum, ego existo. Io non dico assolutamente “penso, dunque sono” – questo non c’è nelle “Meditazioni”, è una formula pedagogica. La vera formula filosofica è “ego sum, ego existo: io sono, io esisto.

Abbiamo letto male Descartes: abbiamo preso anche l’abitudine di pensare questo “io”, che dice “io sono, io esisto”, come se fosse l’anima, il dentro. Allora, che cos’è che dice Descartes? Descartes impiega i due verbi latini, ego sum, ego existo, usa questo doppio “io sono”, e quando si ha bisogno di raddoppiare una formula c’è sempre una ragione. Per comprendere cosa voglia dire, bisogna sapere che il latino di Descartes è abbastanza vicino a quello della scolastica: existo significa “io sono realmente, effettivamente nel mondo”. Forse, non attribuisce ad “io esisto” lo stesso valore che Heidegger attribuisce ad ek-sistere”, essere veramente nel fuori, tuttavia, è proprio quello che significa la duplicazione ego sum, ego existo”.

È la proposizione che la supposizione più stravagante, cioè, che tutto possa essere illusorio, non può far vacillare.  È ciò che resta quando dico: tutto può essere illusorio. Ciò che non è illusorio: io sono fuori, io sono me stesso, non semplicemente nel fuori, ma il fuori. Io sono qui, fuori. Dicendo “io sono fuori”, non affermo un’interiorità, non sono io, René Descartes, tutti possono dirlo – e,d’altronde, Descartes risponde a chi gli chiede di provarlo: è un’evidenza così originaria che se non la si ha, non si può fare niente.  Non ci sono prove, non è qualcosa che si possa dimostrare.  Qualcosa di evidente non si dimostra…

Siamo anche abituati a pensare che Descartes ponga a questo punto la questione dell’anima: che cos’è che io sono: una cosa che pensa – io penso, io sono pensante, dunque, io sono un’anima. Bisogna rileggere a questo riguardo le Meditazioni. Descartes dice: che cos’è una cosa che pensa? È una cosa che desidera, che immagina, che concepisce… e l’ultima parola della serie è… e che sente…che sente. Comè che si sente?

Potete sentire qualcosa senza essere fuori?

Pensare una cosa che pensa è pensare una cosa in rapporto con altre cose, che è in rapporto con il fuori. Sì, si direbbe che l’anima pensante sia ciò che è in rapporto con il fuori… Attraverso cosa si ha un rapporto con il fuori?qui, siete già nel corpo. Non potete dire esisto senza che questo esisto non sia per sé stesso, intrinsecamente, un corpo. 

L’anima di Descartes è più corpo che anima.  Lo dice lo stesso Descartes.

Non lo dice nelle Meditazioni, ma nella corrispondenza con la principessa Elisabeth, tuttavia, ci sono già le premesse nelle Meditazioni. Descartes dice che “l’anima non è nel corpo come un pilota nella sua nave” – perché l’anima non c’è!  Eclatante, perché questa storia del pilota e della nave circola spesso nella coscienza comune in modo irriflesso, ambiguo, e infine si è pronti a pensare che proprio l’anima sia come il pilota di una nave, ma Descartes non lo dice, proprio non lo dice! E quando Elisabeth gli chiede di spiegare un po’ meglio quel che accade tra l’anima e il corpo, Descartes dice: “vi chiedo di pensare all’anima come ad una forma di materia talmente sottile da poter essere diffusa in tutto il corpo.”

Dunque, l’anima di Descartes è materiale.

Questo sorprende, eppure è “fondamentale”.

D’altronde, Descartes aggiunge: la distinzione dell’uomo come essere puramente pensante e come corpo puramente esteso, è una distinzione preliminare, preventiva, che bisogna avere o che deve essere ben presente – è a questo che le Meditazioni sono consacrate – per comprendere come si possa avere una conoscenza del corpo in quanto esteso, esattamente del corpo ridotto all’estensione, dunque ridotto alle figure e al movimento. Del corpo non solamente come oggetto che mi è esterno, davanti a me, ma come un’esteriorità totale. Il corpo esteso è esteriorità, quel che chiama “partes extra partes”, parti esteriori le une alle altre.

In effetti, si ha dell’esteso quando tutte le parti sono esterne le une alle altre. 

Ma Descartes sa molto bene che le parti di un corpo organizzato, per dirla con Aristotele, sono interne le une alle altre. Questa interiorità delle parti di un corpo vivente, di un corpo organizzato, implica, nella sua stessa materialità, quel che si chiama anima”, cioè a dire, la possibilità di entrare in un certo numero di rapporti con il fuori.

Perché, infatti, c’è un fuori, il fuori di questo corpo qui – è la separazione di cui ho parlato poco fa…

Ciò che Descartes dice, non è diverso da quello che Aristotele afferma dell’anima come forma di un corpo organizzato. Contrariamente a quello che siamo talmente abituati a immaginarci, non c’è un solo filosofo che abbia detto il contrario. Nessuno… Potete cercare e ricercare ancora. Spinoza, ad esempio. Spinoza, cartesiano da questo punto di vista, che sembra aver anche stabilito una differenza sostanziale tra il corpo e l’anima, lo spirito, Spinoza come Leibniz, d’altronde, e tutti i grandi cartesiani, ciascuno a suo modo, fanno degli sforzi considerevoli, prodigiosi, per trovare il modo di dire almeno che l’anima e il corpo si corrispondono punto per punto. La famosa proposizione di Spinoza che si cita sempre, che piace così tanto alla nostra coscienza moderna, “non sappiamo nulla di ciò che può un corpo” – vuol dire, a ben vedere, “non sappiamo nulla di ciò che può un corpo” poiché niente/nessuno riesce a pensare sufficientemente fino a che punto un corpo corrisponda sempre puntualmente con un’anima o uno spirito…

C’è tutta una storia di negazione del corpo nella filosofia, che comincia con Platone, con l’affermazione che il corpo è la prigione dell’anima. Sì, certo, ma anche in Platone c’è un motore dinamico del pensiero e del desiderio di sapere, l’Eros, e, in effetti, l’Eros platonico è fisico…

La filosofia non ha mai voluto condannare il sensibile, ha cercato di comprenderlo – perché ad un certo punto è sembrato incomprensibile. Perché? Nelle civiltà che hanno preceduto la civiltà greco-romano-giudaico-moderna, non c’erano in generale molti problemi che riguardassero l’anima e il corpo, erano pochele questioni riguardanti la sensibilità come ambito oscuro, confuso, etc. – proprio il contrario.

Ci sono delle culture nelle quali la questione non si pone nemmeno, il sensibile è come tale intelligibile. Per queste si può fare, allora, un’operazione analoga a quella di Levy-Strauss, che ha inventato la magnifica formula di “pensiero selvaggio”: Levi-Strauss spiega che nelle civiltà del mito, dove il pensiero non è né scientifico né razionale, nel senso moderno, che chiama appunto “pensiero selvaggio”, il pensiero è, tuttavia, così ingegnoso, rigoroso, produttivo, operativo, etc., quanto il pensiero razionale, ma procede in modo completamente diverso, attraverso il melangedi conoscenze empiriche e tramite l’attribuzione di valori mitici o sacri a qualità sensibili. Queste sono culture nelle quali un corpo è innanzitutto carico di senso, è sovraccarico di segni – tatuaggi, labbra e orecchie deformate, e chiaramente organi sessuali  segni che rimandano ad unaltra allure o presenza del corpo.

Ma la nostra civiltà, quella della filosofia, appare quando il funzionamento del mito-sacro viene meno e scompare. 

Allora il sensibile è diventato un problema, ed anche il corpo lo è diventato, quando è diventato, direi, uno schermo. “Che cosa c’è dentro?”, questione che non ha senso in altre culture…

Tendenzialmente, abbiamo dissociato il senso o la significazione del corpo e la sua esistenza… ma, allo stesso tempo, è successo che nella filosofia sia stata confutata la prova ontologica dell’esistenza di Dio, in Kant, e che abbia confutato anche la possibilità di presupporre un ego, un’anima, un soggetto immortale – tre cose contemporaneamente: un Dio, un’anima immortale e un mondo come totalità; tre idee metafisiche che sono smontate da Kant. … e, a partire da Kant, nel pensiero si nota un interesse crescente per il corpo, per il sensibile, anche in Hegel. 

Conoscete limportanza considerevole che Nietzsche accorda al corpo. Con Nietzsche si ritrova la più insistente, la più viva delle esigenze di pensare in funzione di ciò da cui procede il pensiero, cioè dal rapporto con un fuori, un fuori di qualcosa che non è pertanto un dentro, qualcosa il cui dentro non è costituito che dal suo essere fuori. Il vivente in generale è già rapporto con il fuori, e il pensiero non è nient’altro che il fatto di essere davanti al fuori, non un dentro in rapporto con il fuori, ma è porsi come se il fuori fosse davanti. Non c’è pensiero che non sia in rapporto con ilfuori.

Da cosa comincia un corpo? Che cosa determina la corporeità di un corpo? La membrana, la pelle. Riflettete un po’ su cos’è la pelle…